Giovanni 20,19-31
1. La parola 'franca'
La prima lettura (Atti 4,8-24a) narra del discorso di Pietro dopo aver guarito uno storpio
e del successivo arresto e rilascio da parte dei capi dei Giudei.
La parola chiave che vorrei sottolineare è ‘franchezza’, parresia in greco,
la franchezza con cui Pietro parla della propria esperienza.
Essa non indica sfacciataggine, arroganza ma semplice realismo.
Pietro testimonia ciò che ha fatto nel nome del Risorto, ed anche di fronte ai suoi accusatori
non può che dire che la legge divina è superiore a quella degli uomini,
che la coerenza nella fede travalica il rispetto umano.
Che bella lezione anche per noi, per invitarci a vincere la pavidità nella testimonianza.
2. La 'cura' della nostra fede
La seconda lettura (Col 2,8-15) ci esorta ad essere vigilanti, circa il disequilibrio
tra le informazioni, le comunicazioni, le relazioni quotidiane
che tendono ad emarginare il fatto cristiano, seducendoci e affievolendo la nostra fede;
meglio portandoci a confidare non in Dio, bensì in ciò che la mondanità offre.
Di contro, Paolo ci invita alla cura della nostra fede, per mantenere salda la consapevolezza
che solo in Gesù riposa la pienezza della divinità,
cioè della sorgente di vita per l’uomo.
3. L'importanza della testimonianza
Il Vangelo di Giovanni (20,19-31), vera finale della prima delle due edizioni del Vangelo
(alla seconda sarà aggiunto il capitolo 21) ci presenta la pentecoste secondo Giovanni.
Gesù soffia sugli 11 il ruah (soffio, vento, spirito, alito vitale), per la remissione dei peccati
e dà alla chiesa il compito e il potere di ripetere il gesto su ogni uomo,
affinchè nessuno, compiuto il male, cada nella disistima di sé,
si senta totalmente perduto, abbandonandosi così
ad ulteriori possibili derive esistenziali e sociali.
Il tempo pasquale ci richiama l’importanza della testimonianza,
resta la grande domanda di come attuarla in ambienti già cristianizzati,
che spesso hanno ripudiato la fede e sono ostili alla Chiesa.
Se non vedo, se non tocco non credo, è slogan contemporaneo, attualissimo.
Ritorniamo alla parola “franchezza”. Oggi l’ateismo dilaga in forma pratica non teorica.
Non ci sono più grandi ragionamenti e ideologizzazioni dietro la negazione di Dio.
Semplicemente dal rifiuto alla Chiesa si passa a quello di Dio, o, nel migliore dei casi
si apprezza l’opera sociale (che non è il suo proprium) della Chiesa,
soprattutto del Papa e di taluni preti impegnati nel sociale.
Il veicolo della testimonianza è oggi la franca narrazione
di quanto noi vediamo nelle nostre comunità, pregi e limiti,
ma soprattutto pregi, rallegrandoci dell’opera che Dio compie in noi anche oggi.
Nessuno può contestarci quando con franchezza, e naturalmente coerenza,
narriamo il bene che ci fa il frequentare i sacramenti, la comunità cristiana.
Dunque non grandi ragionamenti (che vi esporrebbero a lunghe, stucchevoli
e inconcludenti discussioni), ma un dire appassionato, credente,
a partire dal vedere quanto Dio opera in chi veramente crede in lui.
E’ questo l’unico vedere che ci è dato, fino alla seconda venuta del Signore.
E’ a partire da questo sguardo che anche noi, pur nella fatica di questi giorni,
potremo ripetere con Tommaso apostolo, una delle più antiche professioni cristologiche
della Chiesa primitiva: “Mio Signore e mio Dio”.