Giovanni 18,33-37
1. Il titolo di 're'
Il titolo di re attribuito a Gesù non persuade. Gesù stesso non apprezzava questo titolo e questo ruolo.
I Vangeli raccontano che una sola volta Gesù è fuggito: quando la folla lo cerca per farlo re.
Avevano mangiato pane buono, abbondante e gratuito e vogliono garantirselo, acclamando
Gesù come re. E Lui si sottrae alla folla e si ritira solo sulla montagna.
Un’altra volta parlando dei re e dei capi delle nazioni Gesù dirà: 'costoro esercitano il potere
e si fanno chiamare benefattori' ma, aggiunge rivolgendosi ai discepoli:
'tra voi non sia così, il più grande si faccia servo di tutti'.
E infine nel dialogo ascoltato nel vangelo è Pilato che attribuisce a Gesù questo titolo regale
ma Gesù accuratamente si distingue dai re di questo mondo: 'il mio regno non è di questo mondo'.
Allora possiamo sì adoperare questo titolo regale per Gesù, ma facendo ben attenzione
a distinguerlo dalle teste coronate. Forse sarebbe meglio non usarlo affatto.
2. Il senso di questa festa
Questa festa di Cristo Re è recente: è stata istituita nel 1925 da un papa di origine milanese:
Pio XI voleva contrastare la mentalità laicista che già allora tendeva ad escludere
dalla vita pubblica e civile la presenza dei valori cristiani
che dovevano essere rigorosamente confinati nella sfera privata,
nell’ambito della coscienza personale senza alcun rilievo pubblico.
Nata in un contesto polemico la festa odierna manifesta comunque un valore perenne.
L’immagine regale vuol esprimere il primato di Cristo, il suo essere il prototipo dell’umanità,
il primogenito, l’uomo nella sua compiutezza, l’uomo pienamente realizzato.
Ma qual è il luogo di tale realizzazione?
Questo titolo di re è scritto in cima alla croce e la croce è il suo paradossale trono. La sovranità
di Cristo non si esprime nell’esercizio del potere, ma solo nell’incondizionato dono di sé.
Proclamare Cristo re vuol dire proclamare il trionfo di colui che non ha potere,
che non dispone di eserciti per difenderlo,
di colui che sta in mezzo a noi come colui che serve.
3. Chiesa che serve: dalla carità
Come quelle di Gesù, anche le nostre “opere di carità”
devono risplendere come luce nelle tenebre del mondo.
Per essere sempre più “Chiesa delle beatitudini”, ogni comunità cristiana deve essere
- povera e amica dei più poveri, attenta e accogliente verso ogni persona nel bisogno e verso ogni forma, antica o nuova, di povertà
- capace di consolare chi si trova in qualsiasi genere di afflizione, di rispondere alla violenza con la forza di un amore senza riserve misericordiosa, nella quale ciascuno si sente ascoltato, incoraggiato e accompagnato nel suo cammino di conversione
- espressione visibile per ogni uomo e ogni donna del volto del Padre, che accoglie
- artefice di pace, che non si stanca mai di denunciare ogni violazione della dignità della persona e che proclama con coraggio di fronte ai piccoli e ai potenti i diritti degli uomini, dei popoli e delle nazioni
- disponibile e aperta a ogni sana collaborazione con i responsabili della cosa pubblica, unicamente preoccupata del bene di ogni persona e dell’intera società.